IL RILANCIO DELL’ECONOMIA ATTRAVERSO LA DIFESA DELLA COMPETITIVITA’ EUROPEA

INTERVENTO AL CONVEGNO 3 FEBBRAIO 2012 MILANO – SALA PIRELLI – PALAZZO DELLE STELLINE


 


La violenza è parte della natura umana.


La lotta tra il bene e il male appartiene alla storia della società ancora prima che la stessa trovasse un ordine costituito.


Vi sono però periodi storici nei quali la violenza esplode con particolare forza e in modo dirompente travolge intere collettività o singoli individui.


Nel nostro continente la creazione dell’Unione europea ha fino ad oggi impedito il ripetersi di atrocità non solo come quelle perpetrate nell’ultima Guerra Mondiale ma anche negli anni e nei secoli precedenti.


Il periodo storico che noi europei stiamo vivendo si è sviluppato senza conflitti sanguinosi, ma alcuni aspetti ci rendono comunque preoccupati per il nostro futuro.


La crisi economica ha riportato alla luce le debolezze di una Unione che fino ad ora non è stata in grado di dare vita e consistenza ad una politica economica, né per promuovere, né per mantenere lo sviluppo e la giustizia sociale.


La vorticosa accelerazione e l’utilizzo, spesso incontrollato, di scoperte tecnologiche ed informatiche ha sì creato maggiori momenti di comunicazione, ma ha anche evidenziato le troppe discrepanze di una società il cui progresso non si è sviluppato in modo armonico e nella quale, perciò, nuove povertà ed empasse culturali hanno acuito le differenze.


Il predominare della finanza virtuale sull’economia reale, problema che coinvolge quasi tutto il mondo, ha, in Europa, creato un danno particolarmente evidente in un sistema nel quale non tutti i Paesi dell’Unione hanno la stessa moneta e le scelte monetarie non seguono valutazioni politiche ma le decisioni del sistema bancario e finanziario.


La mondializzazione non guidata da regole comuni, come dimostra il mancato adeguamento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio alla realtà attuale, ha messo in difficoltà non solo il sistema produttivo europeo ma le stesse radici culturali ed i costumi dei nostri paesi e non ha aiutato i paesi a noi vicini.


Queste insicurezze, che i singoli spesso vivono come autentica violenza al loro modo di vita perché la politica, più volte con arroganza, impone senza proporre e discutere, hanno creato un crescente senso di disagio e spesso di autentica ribellione.


In questi anni non abbiamo soltanto assistito, in grandi città europee, ai massacri compiuti dai terroristi, ma abbiamo visto anche vere e proprie sommosse di piazza, violenze nate improvvise e guidate da gruppi tra di loro collegati solo da un unico obiettivo: la violenza stessa.


Da qualche tempo, inoltre, sono diventate sempre più frequenti le esplosioni di devastante follia di singoli che sterminano le proprie famiglie o uccidono, per futili motivi, persone inermi.


In una apparente quiete, mentre nelle nostre città, specie nelle grandi città, si diffonde un senso di ineluttabile tristezza e rassegnazione, ugualmente si diffonde un clima di insicurezza e paura, un sentimento di ira e irragionevolezza, di violenza verbale e fisica che monta di giorno in giorno, di ribellione contro le istituzioni: tutto questo, di fatto, rafforza il potere di pochi a danno della democrazia.


Ecco perché il rilancio economico passa anche da una maggiore difesa delle regole del vivere civile e dei valori fondamentali.


Le regole condivise e rispettate sono alla base di ogni democrazia come abbiamo imparato dalla storia dei diritti umani, a partire dalla Magna Charta. E le regole condivise debbono oggi saper coniugare i diritti con i doveri.


Nessuna società sarà in grado di garantire sviluppo e convivenza civile se non saprà rispettare e far rispettare, in eguale misura, i diritti e i doveri che competono ai singoli come alle istituzioni, all’impresa e al commercio come al sistema energetico, ambientale ed alimentare.


Il rilancio economico dell’Europa parte perciò, a nostro avviso, da alcuni presupposti, fondamentali: bisogna ridare dignità al lavoro e rispettare clausole sociali che, garantendo basi di partenza uguali, premino sia per i singoli che per le imprese, il merito e perciò la qualità dell’impegno e la capacità di rispettare regole condivise.Le imprese che osano continuare a produrre in Europa non possono continuare a subire ulteriori appesantimenti, veri e propri handicap nello svolgimento delle loro attività, per le inutili difficoltà burocratiche che rimangono in alcuni paesi quali l’Italia e le piccole e medie imprese devono avere canali garantiti per poter difendere i loro diritti negli eventuali contenziosi con paesi terzi. Già nella scorsa legislatura, come relatore sul rafforzamento del ruolo delle PMI nel commercio internazionale, (2008/2205(INI)) avevo evidenziato, e l’Aula di Strasburgo aveva votato condividendo la mia opinione, l’impossibilità per le PMI di affrontare l’internazionalizzazione. I dati sono veramente preoccupanti: oltre il 96% delle PMI dell’Unione europea hanno meno di 50 dipendenti e un fatturato annuo inferiore a 10 milioni di euro, il che limita la loro capacità di esportare beni e servizi oltre i confini nazionali, dati gli elevati costi fissi collegati al commercio internazionale. Solo l’8% delle PMI dell’Unione esporta beni al di fuori delle frontiere nazionali e circa il 3% delle PMI considera prioritaria l’esportazione di beni al di fuori dell’Unione.


Nonostante quel voto del Parlamento e una serie di iniziative poi messe in essere in questa legislatura dalla Commissione, mancano a tutt’oggi ancora sostegni concreti per garantire lo sviluppo delle piccole e medie imprese per non parlare delle difficoltà che incontrano gli importatori in alcuni paesi dell’Unione, in Italia in primis per la mancata armonizzazione del sistema doganale. Ancora una volta sono privilegiate le grandi catene internazionali, sia per l’acquisto che per la vendita. Non si può pensare ad un mercato mondializzato, ad una società mondializzata se non si crede fermamente nella necessità di regole chiare e condivise e non c’è democrazia compiuta quando la libertà del mercato è negata nei fatti dall’impossibilità per troppi di accedere, di partecipare ad un sistema di corretta concorrenza.


Se il lavoro effettuato in un campo di concentramento illegale in Cina è equiparato al lavoro effettuato nel carcere di un paese democratico rispettoso dei diritti umani, se il lavoro di persone costrette a produrre con la violenza e l’ingiusta privazione della libertà diventa un prodotto messo sul mercato in concorrenza con quello eseguito da lavoratori di paesi liberi e con clausole previdenziali rispettate è chiaro che c’è qualcosa che non funziona.


Se dobbiamo accettare che il futuro della società in genere, che il progresso sia valutato in base a più Ipad per alcuni e a più fame e disperazione per tutti gli altri, c’è qualcosa che non va e a cui dobbiamo porre rimedio.


Il mercato libero non può essere confuso con un sistema liberista senza regole, basato solo sul profitto individuale fine a se stesso. Bisogna che tutti insieme si sappia dire basta ‘al mordi e fuggi’ che in questi ultimi anni ha caratterizzato un sistema economico, politico e finanziario ormai superato nei fatti.


Il benessere di molti paesi, nel passato, é derivato dalla capacità dell’impresa di costruire progetti guardando avanti. Dobbiamo ritrovare quella capacità e sapere coniugare, in una sintesi moderna, capitale e lavoro, sviluppo e benessere dei singoli e della società.


Per rilanciare lo sviluppo occorre maggiore sussidiarietà mentre invece, in questo momento, l’atteggiamento dirigista di alcuni governi dell’Unione impedisce l’armonizzazione delle diverse peculiarità del sistema produttivo e culturale dei singoli stati e il patto di stabilità sembra esser divenuto un Moloch divino che rischia  ogni giorno di più di impedire il rilancio, perché non tiene conto delle oggettive differenti realtà.


Chiedere agli stati membri reciproche garanzie per i bilanci non può voler dire imporre dall’Unione scelte che riguardano singole realtà territoriali e non può la politica monetaria, ammesso che esista e sia efficiente, sostituirsi alla politica economica e alla politica tout court.


Siamo contrari alle barriere doganali, ma siamo fermi nel chiedere reciprocità e correttezza per il sistema manifatturiero e per i consumatori europei. L’accoglimento del regolamento per la denominazione d’origine di alcune categorie di prodotti extra UE, che da troppo tempo stiamo aspettando sia approvato dal Consigli europeo, dopo il voto del Parlamento nel 2010 sarebbe uno strumento efficace per dare ai consumatori europei gli stessi diritti dei consumatori cinesi, statunitensi e canadesi etc, e per garantire una corretta e perciò vera competizione alle imprese che producono sul territorio europeo e di conseguenza garantiscono occupazione.


L’Europa elargisce fondi sociali e strutturali e in questo lungo momento di crisi economica abbiamo chiesto al Consiglio e alla Commissione di considerare l’opportunità di concedere, per tre anni, alle micro e piccole imprese, tramite accordi con i governi nazionali, uno status provvisorio che garantisca una franchigia fiscale, fino a un valore pari a 30.000 euro di utile annuale di esercizio, e a garantire, a quelle che assumano un giovane a tempo indeterminato, lo sgravio della contribuzione previdenziale per la durata di tre anni. Riteniamo che questa strada aiuterebbe i paesi il cui tessuto economico é in gran parte basato sulle PMI e l’artigianato. Lasciando agli Stati il diritto di scegliere l’utilizzo dei fondi europei, ma dando a questo utilizzo maggiore elasticità, si potrà ottenere un riscontro immediato rispetto alle necessità dei diversi territori e dei diversi sistemi economici.


Per proseguire effettivamente sulla strada delle liberalizzazioni bisogna riconoscere che dobbiamo saper tutelare alcuni settori strategici dell’Unione, specie in tema di difesa e di settori sensibili.


La politica commerciale, ormai diventata strumento di politica estera, deve sapere offrire una maggiore attenzione ai Paesi del Mediterraneo e all’intero continente africano, perché questo continente rappresenta un grande mercato, una grande opportunità politica e una grande sfida per le nostre capacità.


Lo sviluppo del Mediterraneo contrasta il terrorismo, gli estremismi e i radicalismi religiosi, impedisce l’immigrazione incontrollata, garantisce il procedere del processo democratico, può offrire concretamente nuovi scenari ai nostri imprenditori e ai nostri tecnici, ma bisogna agire perché abbiamo perso troppo tempo. Abbiamo lasciato che compagnie petrolifere canadesi acquisissero le concessioni di trivellazione petrolifera nella regione del Puntland in Somalia, abbiamo tergiversato per mesi sull’accordo agricolo con il Marocco e addirittura respinto l’accordo sulla pesca! Solo per fare alcuni esempi.


Perché l’Europa é così miope e lenta quando i cinesi avanzano sottraendo ogni giorno, e spesso in modo scorretto opportunità al nostro mercato?


L’Europa oggi, meglio la Germania che sembra ogni giorno diventare sempre più leader assoluto, pretende di restringere le sovranità nazionali senza che sia convocata una convezione per fare discutere insieme le istituzioni europee, i governi e i parlamenti nazionali. Si sostiene che i tempi sono stretti, che siamo in emergenza. Ma questa emergenza non è forse dovuta all’incapacità, all’indifferenza che negli ultimi anni  ha impedito ad alcuni di trovare la spinta e il coraggio per rendere più chiare  e forti alcune istituzioni europee lasciando che le stesse  acquisissero invece poteri inutili perché non in grado di esercitarli. La bolla immobiliare spagnola, la crisi irlandese, il tracollo greco: solo per citare alcuni esempi, non sono forse il frutto avvelenato di un sistema finanziario in mano a pochi, gestito con spregiudicatezza e non nell’interesse collettivo, spregiudicatezza e incapacità di visione del futuro che hanno portato al disastro prima negli Stati Uniti e poi nel nostro continente. Tra i tanti esempi citiamo solo quello dei derivati acquistati dalle banche e dalle amministrazioni europee.


Nonostante i danni e l’esperienza oggi siamo di nuovo di fronte ad atteggiamenti spregiudicati e colpevoli se è vero che la BCE ha stanziato alle banche italiane 116 miliardi di euro, il 23% dei 489 miliardi che sono stati erogati alle banche di tutta Europa. Ma tuttora non si sa se questi stanziamenti serviranno per aiutare le imprese sane a ritornare sul mercato o saranno, invece, come da più parti ci risulta, utilizzati per ricapitalizzare le banche stesse.


Il capitalismo muore quando il profitto diventa solo fine a se stesso e non è perciò più in grado di produrre nuovo sviluppo e benessere per la società.


Il Financial Time e L’Economist hanno dedicato dibattiti ed analisi sul tema: è una crisi terminale quella che stiamo vivendo o è curabile all’interno delle regole di un’economia di mercato? Martin Wolf del Financial Time ammette che l’idea di un’estinzione del capitalismo oggi ha più peso di quanto ne avesse quattro anni fa, secondo quanto riporta anche Repubblica del 26 gennaio 2012. In un pamphlet scritto dall’ing. Federico Ferragni nel gennaio 2011 Banche e crisi Finanziaria, Ferragni riporta e commenta una serie di interrogazioni e proposte di risoluzione che io stessa avevo avuto modo di presentare al Parlamento europeo dal maggio 2002 al settembre del 2010. Nel libro, in sintesi, appare chiaro come una serie di avvertimenti di quanto stava avvenendo non poteva sfuggire ad osservatori un minimo attenti ed interessati a cercare di trovare soluzioni anche  a breve termine. Purtroppo molte occasioni sono state perse, ma non possiamo continuare a perderne, perché ciascuno di noi, nel grande e nel piccolo, ha specifiche responsabilità per il ruolo che ricopre, per questo vorremmo che il confronto di oggi segnasse un passo avanti nella capacità di confrontare idee, ma anche di dare risposte senza ulteriori ambiguità.


Lo sviluppo nasce se vi é capacità di visione globale, conoscenza delle realtà geopolitiche, se cioè si é capaci di coniugare riforma e progresso con tradizione e identità       


Se la crisi è sistemica, come tanti dicono, vi è l’urgenza di dare vita ad un sistema nuovo, proiettato alla soluzione dei grandi interrogativi posti dal terzo millennio in una società che non è più contadina, non è più industriale, ma che deve necessariamente tener conto che senza agricoltura e manifatturiero non c’è futuro.