È ormai noto che il diritto di famiglia tedesco è diverso da quello delle altre giurisdizioni europee, nel senso che difende solamente l’interesse tedesco e mai quello dei bambini e del genitore straniero. Anzi, anche quando il bambino dichiara di preferire di vivere nel paese del genitore non tedesco, i tribunali tedeschi fanno coincidere il suo bene con la permanenza in Germania, persino quando è lontano dalla madre o dal padre non tedeschi. La conseguenza diretta di questo principio è che il genitore non tedesco perde sistematicamente i suoi figli e che i suoi diritti fondamentali, come il diritto ad un processo imparziale, non sono sistematicamente rispettati. Riconoscere queste decisioni da parte degli altri Stati europei equivale a riconoscere sentenze prese in un Paese che non rispetta gli stessi principi che vengono rispettati nel resto d’Europa.
Sarebbe come se riconoscessimo la decisione presa da un Paese che fa della pena di morte la sua legge: importare la decisione nelle nostre giurisdizioni corrisponderebbe a riconoscere la pena di morte. Ciò che le istituzioni europee non vogliono considerare, rispetto a questa specificità del diritto di famiglia tedesco, è che, accettando le decisioni dei loro tribunali, si importano principi che nelle altre giurisdizioni non esistono. Così diventa normale che i figli della dottoressa Marinella Colombo, o della signora Marie Galimard-Geisse – per non fare che due esempi tra le centinaia di casi presentati alla commissione delle petizioni del Parlamento europeo – non esistano più come italiani o come francesi, non possano più parlare la loro lingua materna e non pensino più in italiano o in francese, pur avendo un genitore di tale nazionalità e cultura. Saranno morti come cittadini italiani o francesi.
Ad aggravare la pesantezza morale e l’ingiustizia giuridica di una simile situazione ci si mette anche “Der Spiegel” che attacca con falsità chi, attraverso un’associazione europea, cerca faticosamente di far luce su questo fenomeno della sottrazione sistematica dei figli al genitore non tedesco da parte dello Jugendamt, anche quando i figli non sono consenzienti. La germanizzazione forzata dei bambini non sembra un’operazione che possa essere ammessa dal Regolamento (CE) 2201/2203, sempre in vigore.
Ciò premesso, la Commissione
1. non condivide questa visione delle conseguenze subite dai genitori non tedeschi e dai loro figli nell’applicazione unilaterale del diritto di famiglia tedesco?
2. Perché rimane insensibile a questa situazione e alla denuncia fatta da “Liberation“[1]?
[1] http://www.liberation.fr/depeches/01012384141-parents-divorces-des-deputes-europeens-epinglent-l-allemagne
IT
E-000827/2012
Risposta di Viviane Reding
a nome della Commissione
(29.2.2012)
Per quanto riguarda la questione della presunta discriminazione dei genitori non tedeschi obbligati a esprimersi in tedesco con i loro figli in certi incontri organizzati e sorvegliati dallo Jugendamt, la Commissione rinvia l’onorevole parlamentare alla risposta fornita all’interrogazione scritta E-5590/09.
Il diritto a un processo equo e il diritto di intrattenere contatti diretti con entrambi i genitori sono diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’ UE. Tuttavia, ai sensi dell’articolo 51 della Carta, le sue disposizioni si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Per quanto riguarda l’applicazione del diritto sostanziale di famiglia, spetta unicamente agli Stati membri garantire il rispetto dei loro obblighi in materia di diritti fondamentali, in conformità con gli accordi internazionali e con la legislazione interna. Pertanto, la Commissione non può formulare osservazioni sul rispetto dei diritti fondamentali da parte delle autorità tedesche nell’applicazione del diritto di famiglia sostanziale tedesco.
Il riconoscimento e l’esecuzione, in un altro Stato membro, delle decisioni esistenti relative alla responsabilità genitoriale emesse da giudici tedeschi sono disciplinati dal regolamento (CE) n. 2201/2003[1]. Ai sensi del considerando 21 di detto regolamento, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni rese in un altro Stato membro dovrebbero fondarsi sul principio della fiducia reciproca e i motivi di non riconoscimento, come quelli definiti agli articoli 22 e 23 del regolamento, dovrebbero essere limitati al minimo indispensabile. Le disposizioni del regolamento per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni emesse in un altro Stato membro si fondano sul presupposto che i singoli sistemi giuridici nazionali degli Stati membri siano in grado di fornire un livello equivalente ed efficace di tutela dei diritti fondamentali riconosciuti a livello dell’UE.