Una donna italiana che si sposa con un egiziano, stando a casi già verificatisi a Milano, rischia di incorrere in una situazione dalla quale non potrà più uscire. Succede, infatti, che il marito, dopo un certo periodo di convivenza matrimoniale italiana, conduce la moglie presso il consolato egiziano, con la scusa di trascrivere in Egitto l’atto matrimoniale contratto in Italia. Molto spesso, tuttavia, la donna firma un documento redatto in arabo, senza nessuna traduzione in italiano. Alle sue domande si risponde che la firma è una pura formalità per la semplice trascrizione in Egitto dell’atto avvenuto in Italia. Malgrado ciò, in caso di divorzio risulta che il documento firmato non è una trascrizione legale, che non è nemmeno contemplata dalla legislazione egiziana, ma un nuovo atto di matrimonio secondo il diritto egiziano, ovvero, secondo la legge islamica che, come noto, non riconosce la parità religiosa. Se un mussulmano sposa una cristiana o un’ebrea, la moglie perde ogni diritto nei confronti dei figli e, in caso di morte del congiunto, non riceve nemmeno l’eredità. Con il divorzio, i figli vengono portati in Egitto a ricevere un’educazione mussulmana e i tentativi della madre italiana di riportarli in Italia, o solo di vederli, risulteranno vani. In quanto non mussulmana, il governo egiziano non le riconoscerà alcun diritto.
La Commissione
- conosce l’esistenza di situazioni simili in altri Stati dell’Unione?
- L’obbligo della traduzione di atti apparentemente legali in sedi diplomatiche come i Consolati, non è sancito da regole internazionali?
- Sa se casi simili succedono anche nei confronti di altri Paesi islamici?
- Quali strumenti può usare l’Unione per tutelare le donne europee che hanno contratto matrimonio con uomini mussulmani?