“TRANSAQUA”: UN PROGETTO PER SALVARE IL LAGO CIAD

Hic sunt leones. L’iniziativa prevede un canale che dal fiume Congo arrivi direttamente al bacino idrico

In un articolo del 17 novembre 2023 a firma di Giulio Albanese l’Osservatore Romano cita Cristiana Muscardini che in Europa seguì in più occasioni la situazione del Sahel

C’era una volta il lago Ciad. È proprio il caso di dirlo perché più passa il tempo e più si rimpiccolisce. Stiamo parlando di un bacino endoreico, ossia privo di emissari, alimentato principalmente dal fiume Chari. Situato nel settore centro-settentrionale dell’Africa, a ridosso dei confini di Ciad, Camerun, Niger e Nigeria, è localizzato per la precisione nella cosiddetta fascia saheliana, una regione a meridione rispetto al deserto del Sahara. Il lago è fiancheggiato da sedimenti di argilla e sabbia ed è circondato dal massiccio del Tibesti (a nord), dalla regione dell’altopiano dell’Ennedi (a nord-est), da quella di Ouaddaï (a est) e dall’altopiano di Oubangui (a sud). Negli ultimi anni, il lago ha subito una diminuzione considerevole della sua estensione, dovuta alle scarse precipitazioni e all’utilizzo sempre più frequente dell’acqua prelevata dal lago stesso o dai suoi affluenti, per l’irrigazione dei terreni.

Sta di fatto che dagli anni Sessanta ad oggi, la sua superficie si è ridotta del 90 per cento, passando nella stagione delle piogge dai 25.000 chilometri quadrati del 1960 agli attuali 1.540. Solo pochi decenni fa questo bacino aveva un’estensione di assoluto rispetto e rappresentava un’importantissima riserva idrica per la popolazione autoctona. Una delle caratteristiche del bacino è la scarsa profondità: 1,5 metri, con picchi che arrivano a 11 metri. Considerando che il lago è soggetto a ricorrenti crisi idriche, questa situazione comporta che, in caso di siccità, non si verifichi il tradizionale abbassamento delle acque ma, fatto di gran lunga più problematico, una vera essiccazione di intere aree, a seconda dell’intensità della crisi climatica. Intorno al lago si trovano più di 70 gruppi etnici, la maggior parte dei quali sono distribuiti sulla sponda meridionale. Fanno affidamento sulla fonte d’acqua per l’irrigazione, l’allevamento degli animali e per bere.

La progressiva riduzione del lago Ciad minaccia fortemente quella che ancora oggi sembra costituire una sorta di barriera naturale contro il processo di desertificazione in atto che potrebbe spingere ancora più a meridione una massa di diseredati sempre più poveri ed affamati. L’inaridimento della regione lacustre, l’estrema povertà e i violenti conflitti in atto sul territorio rendono, secondo le Nazioni Unite, circa 60 milioni di persone che vivono sulle rive del lago bisognose di protezione umanitaria. Non c’è quindi da essere sorpresi che i giovani di queste terre avvertano la necessità di emigrare e che altri possano finire nelle reti del terrorismo e del crimine organizzato. Com’è noto, sono proprio la mancanza di lavoro e l’insicurezza le cause principali delle migrazioni anche verso l’Europa.

Da più di cinquant’anni c’è nel cassetto il progetto “Transaqua2 che prevede un canale di 2.400 chilometri che dal bacino del fiume Congo per gravità porti le acque direttamente nel lago Ciad. L’idea di una grandiosa infrastruttura multifunzionale per il continente africano risale al 1972, e venne concepita come ipotesi di progetto dal dottor Francesco Curato — all’epoca amministratore delegato di Bonifica, una delle più prestigiose consulting engineering dell’allora Gruppo Iri-Italstat — che nel trentennio Sessanta–Novanta sviluppò importanti attività all’estero. In quel periodo il dottor Marcello Vichi — all’epoca dirigente di Bonifica impegnato nella individuazione e sviluppo di progetti agricoli soprattutto all’estero — ebbe dall’amministratore delegato l’incarico di verificare, in via del tutto preliminare, la possibilità di “trasferire” un volume considerevole di acqua dai due bacini in questione. Da rilevare che già allora erano noti dati climatologici delle agenzie internazionali e le loro conseguenti estrapolazioni che paventavano, in un imminente futuro, un disastroso progressivo prosciugamento del lago Ciad, fenomeno drammaticamente e puntualmente verificatosi, come abbiamo visto, negli anni successivi con la conseguente distruzione di una economia agro-pastorale, sostegno, da sempre, di numerose comunità rurali del Ciad, del Niger, della Nigeria e del Camerun insediate sulle fertili rive del lago.

I fautori di questa iniziativa per anni riscossero molti consensi sia tecnici che politici ma, malgrado l’impegno della Società promotrice, l’idea, così come era stata concepita, non riuscì a decollare per l’eccessiva ambiziosità e i costi dell’iniziativa. Uno dei paladini di questo progetto, che più di altri ha portato avanti in modo perspicace un’autentica campagna, è stato l’ex primo ministro italiano ed ex presidente della commissione europea Romano Prodi, in particolare in qualità di inviato speciale Onu per il Sahel e di presidente della Fondazione per la collaborazione tra i popoli.

I governi locali — è bene sottolinearlo — in linea di principio sostengono l’iniziativa ritenendola necessaria. Motivo per cui l’ex presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, poco prima della pandemia, nel 2019, promosse la raccolta di fondi per la realizzazione del progetto di “trasferimento idrico” dalla regione dell’Africa centrale verso il lago Ciad nel Sahel, con l’intento dichiarato di coinvolgere sponsor pubblici e privati per finanziare il progetto. Nel complesso, esso richiederebbe oggi almeno 50 miliardi di dollari che i Paesi direttamente interessati dal bacino acquifero del lago Ciad, cioè la Nigeria, il Camerun, il Niger e il Ciad, ovviamente non sarebbero da soli in grado di disporre. Se ciò avvenisse, sarebbe possibile il trasferimento di 100 miliardi di metri cubi di acqua all’anno dal fiume Congo al lago Ciad, equivalente a circa l’8 per cento della portata del fiume, che, come noto, si riversa nell’oceano Atlantico. Il piano prevede anche la costruzione di un sistema di dighe, bacini artificiali e canali che forniranno energia pulita, trasporto fluviale e acqua dolce per le popolazioni interessate e per lo sviluppo di un moderno settore agroindustriale nell’Africa centrale. “Transaqua”, alla prova dei fatti, risponde a molte delle sfide poste dalla difficile congiuntura in cui versa il continente africano, offrendo la possibilità di lavoro e benefici per i Paesi a Sud del Sahel, inclusa la Repubblica Democratica del Congo, che metterebbe a disposizione l’acqua in cambio di un importante arricchimento infrastrutturale e produttivo.

Come prevedibile, la Cina è il primo Paese a essere interessato, non solo per ragioni geopolitiche ma anche perché ritiene che questo tipo d’infrastrutture possano avere una favorevole ricaduta economica per gli scambi commerciali. Già nel 2016 Power China, il gigantesco conglomerato industriale cinese che ha costruito anche la diga delle Tre Gole sul fiume Azzurro, aveva discusso del progetto con il governo della Nigeria, esprimendo la sua disponibilità a partecipare al finanziamento e alla realizzazione dello stesso. Nonostante esista la Commission du bassin du Lac Tchad (Cblt), che da decenni si prodiga per risolvere i problemi inerenti al prosciugamento del bacino lacustre e nonostante essa abbia identificato già nel 2018 in “Transaqua” l’unica strategia risolutiva possibile, il progetto è sempre stato osteggiato, per non dire boicottato, a livello internazionale. Come rileva il portale Analisi Difesa: «Nonostante l’Europa continui ad esprimere preoccupazione per il Sahel e per il 2023 abbia stanziato 1,7 miliardi di euro in aiuti umanitari, quando l’eurodeputata Cristiana Muscardini già nel 2013 aveva presentato un’interrogazione al Parlamento europeo per sapere se l’idea di costruire un’infrastruttura come “Transaqua” fosse mai stata presa in considerazione, il Commissario allo sviluppo Andris Piebalgs si trincerava dietro i soliti “rischi ambientali”. Rischi che però sono solo ipotetici dato che lo studio di fattibilità, step necessario per qualsiasi valutazione tecnica, ambientale ed economico-finanziaria, ad oggi non è ancora stato fatto».

La realizzazione del grandioso progetto in questione sarebbe un aiuto concreto allo sviluppo del continente africano e un modo serio di “aiutarli a casa loro”. Purtroppo, la comunità internazionale sembra volersi ancora focalizzare più sugli interventi umanitari e ambientali di breve o medio termine che su iniziative radicali e risolutrici per sostenere il continente e per contenere il flusso dei cosiddetti “migranti economici” che tanto preoccupano le cancellerie europee.

di GIULIO ALBANESE